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Oggi tutti parlano di inclusione... ma è sempre vera inclusione?

Il concetto di inclusione non sempre a tutti è chiaro. Spesso viene confuso con integrazione o  addirittura rischia di essere usato a vanvera, in  discorsi retorici.
Occorre fare chiarezza!
Da anni la pedagogia speciale, la scienza che studia l’educazione e pone al centro delle sue attenzioni le questioni educative riferite a bambini, giovani e adulti che presentano problematiche personali particolari, “speciali”,  discute sui significati dell'inclusione.   Alcuni  personaggi fondatori della pedagogia speciale, Montessori, Decroly ..., erano medici che capirono l’importanza di “educare”; divennero grandi pedagogisti e seppero lottare, ricercare e sperimentare metodi ed attività innovative per poter offrire le risposte capaci di dare dignità umana ai loro allievi. 

Nella stessa pedagogia speciale, secondo il professore di didattica e pedagogia speciale Fabio Bocci,  si possono sintetizzare due differenti  interpretazioni del concetto di inclusione:

  • inclusione come prodotto: includere qualcuno, con il rischio che diventi solo un fenomeno normativo
  • inclusione come processo che rende i contesti  di apprendimento  inclusivi, attraverso l’ applicazione condivisa di  insegnamenti  speciali o di tecniche didattiche  inclusive.

La prima di queste  interpretazioni del concetto di inclusione, che troviamo nel documento della Buona scuola, nella Legge 107/2015 e in alcuni suoi decreti attuativi,  intende  includere qualcuno, o singole categorie di studenti con difficoltà che hanno bisogno di persone speciali, che devono essere formate ad hoc. Una specie di ampliamento dell’integrazione ... ma l’ inclusione è un’altra cosa!

La seconda interpretazione, invece, sposta la visione dal prodotto al processo che modifica i contesti, rendendoli  inclusivi per tutti. Si tratta di un processo multidimensionale che mira a creare le condizioni per una piena ed attiva partecipazione da parte di ogni membro della società ad ogni aspetto della vita, anche a livello di processi propositivi e decisionali (UN-DESA, 2009).
Per realizzare questo processo occorre un pensiero costruttivo e condiviso tra i diversi attori all'interno dei contesti scolastici, che determini la creazione di ambienti accoglienti inclusivi, attraverso strategie educativo/didattiche  che possano contribuire fortemente allo sviluppo e alla crescita cognitiva e psicosociale dei ragazzi in situazioni di difficoltà. Per fare tutto ciò, però, occorrono competenze diffuse in tutti gli attori coinvolti, una continua formazione, un efficace dialogo con le famiglie e con il territorio.

Come abbiamo già spiegato nell’articolo L’isola che non c’è!, integrazione ed inclusione hanno finalità diverse:

  • l’integrazione si propone il reperimento di risorse per consentire il raggiungimento di risultati nell’ambito dell’autonomia, socializzazione, comunicazione
  • l’inclusione si pone l’obiettivo del superamento di ogni tipo di  barriera alla partecipazione e all’apprendimento

L’integrazione degli alunni con disabilità è sempre stata un vanto per il nostro sistema d’istruzione. Importanti sono stati i traguardi dovuti a norme come la Legge 517/77 (che ha sancito il diritto di tutti alla frequenza scolastica), la Legge 279/82 (che ha istituito la figura del docente di sostegno alla classe) e la Legge quadro 104/92 (che ha precisato i diritti delle persone con handicap, prevedendo già anche altre figure professionali diverse, come l’assistente all’autonomia e quello alla comunicazione). Ma una grande  rivoluzione nella progettazione dell’inclusione a scuola  si è avuta  grazie alla visione olistica introdotta dall’ICF (International Classification of Functioning) dell’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità), che ha definito il funzionamento umano come pluridimensionale e  ha promosso un nuovo approccio di individuazione precoce delle difficoltà.  E proprio in quest’ottica  sono state emanate  il 27/12/2012, la Direttiva Profumo sui BES (Bisogni educativi speciali) e l’8/03/2013 la C.M. n.6,  con l’obiettivo di tutelare gli studenti  che hanno delle difficoltà di apprendimento, e che richiedono una “particolare attenzione”, con continuità  o solo in un determinato periodo dell’anno, per motivi diversi, che vanno da disturbi neurologici dell’età evolutiva a difficoltà dovute a svantaggio socioeconomico culturale. 

L’approccio pedagogico che in Italia ci ha portati fino a qui è basato sull’idea che nell’azione educativa si deve partire da quello che la persona è o sarà in grado di fare, non da ciò che non potrà mai fare e che occorre stabilire un linguaggio comune per la descrizione della salute e delle condizioni ad essa correlate per  migliorare la comunicazione  tra  gli operatori sanitari, gli esponenti politici e la popolazione, incluse le persone con disabilità.
In ogni caso bisognerebbe  pensare alla scuola come comunità educante e inclusiva, dove sia possibile costruire le condizioni per una co-progettazione educativa (tra insegnante curricolare, di sostegno, mediatori culturali, genitori, operatori dei servizi) che funzioni come processo educativo  che fa crescere tutta la comunità. 

Includere è ben più complesso che integrare

L’inclusione è un processo continuo, quotidiano, in cui tutti gli insegnamenti e i percorsi di apprendimento  devono poter rispondere alle differenze dei vari soggetti in un’ottica di sostegno distribuito. Non basta integrare le diversità, occorre fare spazio alla ricchezza della differenza, adeguando, di volta in volta, gli ambienti, la prassi, in base ad ogni specifica singolarità.
Purtroppo, però, sono molte sono le scuole e le classi che sono rimaste invariate dall’ottocento ad oggi.   Applicare  la circolare sui BES  o i decreti 66 e 96 non basta per essere inclusivi: occorre un cambiamento sistemico!

 

A cura di Viviana Rossi e Maria Enrica Bianchi 

 

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